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Kachōfūgetsu 花鳥風月: l’emozione nella natura

I poeti di corte del Man’yōshū (万葉集 VIII secolo circa)erano profondamente influenzati dalla natura e sia i loro poemi d’amore che le elegie lo riflettono. “Kachōfūgetsu” era la raison d’etre dell’amore, “sansensōmoku” della tristezza. La natura era sempre una proiezione dei sentimenti umani, mai il contrario. Questi poeti erano ovviamente sensibili alla natura e al rincorrersi delle stagioni, ma la “natura” era sempre interpretata in modo molto restrittivo e si tendeva ad ingabbiarla in immagini convenzionali. Ci sono molte poesie sulla luna, un fenomeno naturale, ma ben poche sul sole e sulle stelle – fenomeni altrettanto naturali. Il mare era un qualcosa di limitato, ad uso di piccoli scafi e di barche per diletto, non il vasto oceano che le grandi navi dirette alla Cina dei Tang dovevano affrontare. Per questi poeti la natura non era un mondo immenso e selvaggio, ma un ambiente racchiuso, dolce e intimo. Il Man’yōshū è, per la maggior parte, una collezione di poesie d’amore nelle quali essi confidavano i loro sentimenti alla natura.

Uso shidarezakura Cardellino e ciliegio piangente, Katsushika Hokusai,1834 - Paris, Musée Guimet.

Uso shidarezakura Cardellino e ciliegio piangente, Katsushika Hokusai,1834 – Paris, Musée Guimet.

 

Cascate Amida nei rella remota regione lungo la strada di Kisokaidô (Kisoji no oku Amida-ga-taki), dalla series Un tour di cascate in varie province (Shokoku taki meguri): Katsushika Hokusai - 1832

Cascate Amida nei rella remota regione lungo la strada di Kisokaidô (Kisoji no oku Amida-ga-taki), dalla series Un tour di cascate in varie province (Shokoku taki meguri): Katsushika Hokusai – 1832

L’espressione Kachōfūgetsu (letteralmente: fiori uccelli vento luna 花鳥風月) è molto spesso reso tout court con “natura” ma nello specifico indica il rapporto con la natura che sottende uno stato gioioso oppure contemplativo dell’animo in contrapposizione a sansensōmoku (lett. monti fiume erbe alberi 山川草木) che provoca una sensazione di tristezza.

fonte: Storia della Letteretura Giapponese di Katō Shūichi a cura di A. Boscaro, Marsilio Editore.

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Storie scritte sull’acqua – Milano | Giappone in Italia

Rassegna Cinematografica presso il centro di cultura Giapponese in via Lovanio 8, 20121 MILANO

Ingresso libero CON TESSERA ASSOCIATIVA

Da Febbraio ad Aprile 2014.

Viaggio nel cinema e nella cultura giapponesi attraverso film inediti,

dal documentario all’animazione, spaziando dai racconti ancestrali

alla contemporaneità,

dalle trasposizioni della letteratura classica a quelle della mitologia,

dall’epoca Heian all’era Meiji.

Rassegna

venerdì 7 febbraio

Mai Mai Miracle / Maimai Shinko to sennen no mahō (2009) di Katabuchi Sunao, 93’

Anime, opera di un giovane autore che si è fatto le ossa nello Studio Ghibli. Tratto da un romanzo di Takagi Nobuko, premio Akutagawa, il film racconta di una bimba e della sua amica immaginaria di mille anni fa. Una delicata e incantevole storia sull’immaginario infantile e un tuffo nell’aurea epoca Heian.

venerdì 14 febbraio

La storia dei canali di Yanagawa / Yanagawa horiwari monogatari (1987) di Takahata Isao, 167’

Posta nella Prefettura di Fukuoka, la cittadina di Yanagawa è, con i suoi 470 km di canali che la attraversano, un’autentica Venezia nipponica. Il film è un documentario sulla città e sul restauro e ripristino delle vie d’acqua che l’attraversano. Una curiosa parentesi del grande regista d’animazione Takahata Isao, autore di punta dello Studio Ghibli e artefice di opere come Una tomba per le lucciole.

venerdì 28 febbraio

Himiko (1974) di Shinoda Masahiro, 100’

Un’immaginaria storia della regina Himiko, dell’antico Regno Yamatai, di cui si hanno notizie da cronache cinesi dell’epoca. Sacerdotessa del culto del Sole, sciamana: la sua vita e le sue vicende sono rese in modo teatrale, dal regista di Doppio suicidio ad Amijima, con uno stile estremamente sofisticato e stilizzato, con scenografie minimali e attraverso i movimenti arcaici della danza butoh.

venerdì 14 marzo

Zen (2009) di Takahashi Banmei, 127’

La vita, la meditazione, gli insegnamenti, l’illuminazione del monaco buddhista Eihei Dogen, il fondatore della branca Soto dello Zen, vissuto nel XIII secolo. L’infanzia da orfano, il pellegrinaggio in Cina e il ritorno a Kyoto. Superbamente impersonato dall’attore kabuki Nakamura Kantarō.

venerdì 28 marzo

La nascita del Giappone / Nippon tanjō (1959) di Inagaki Hiroshi, 182’

Kolossal della Toho sul modello di quelli di Hollywood e in particolare concepito nel solco del celeberrimo I dieci comandamenti di tre anni prima. La mitologia giapponese degli antichi testi del Kojiki e del Nihon Shoki viene ricreata con le più grandi star dell’epoca: Mifune Toshirō nei panni del Principe Yamato Takeru e Hara Setsuko, la musa di Ozu, in quelli della Dea Amaterasu.

venerdì 11 aprile

E poi / Sorekara (1985) di Morita Yoshimitsu, 130′

Adattamento del libro di Natsume Sōseki, scritto nel 1909. Attraverso la figura del protagonista, l’esteta decadente, Nagai Daisuke, i dilemmi morali drammatizzati dal grande scrittore, il contesto psicologico del romanzo, un grande affresco della tarda epoca Meiji e della società nipponica uscita dalla guerra russo-giapponese.

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La donna e l’ombra

Un’estratto dai capitoli 12 e 14 del “Libro d’ombra” di Jun’ichirō Tanizaki in cui si parla della donna, dell’ombra e di molto altro:

12

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Il bunraku è una forma di teatro dei burattini risalente al 1684 a Osaka. I burattini del bunraku vengono animati da tre persone. La magia del teatro bunraku è che i burattini prendono letteralmente vita sotto gli occhi dello spettatore che viene ammagliato dall’espressività dei burattini. Le persone che creano i movimenti diventano vere ombre.
Potete trovare un ottimo filmato qui:
http://youtu.be/QNG-qh40Tl0

Come ben si sa, le bambole del teatro bunraku non hanno di donna che la testa e le mani. Il tronco, le gambe e i piedi sono snodi nascosti dal lungo kimono sotto il quale lavorano le dita del burattinaio. Trovo in quest’artificio un’eco di realtà: ai vecchi tempi solo le parti che sporgevano dall’imboccatura delle maniche e dal girocollo attestavano la presenza femminile; il resto era annegato nell’ombra. Raramente le donne dei ceti alto e medio uscivano di casa; per la maggior parte della vita restavano chiuse e come sepolte nel segreto di grandi dimore ombrose; quando uscivano si rannicchiavano in fondo ai palanchini. Erano visi, visi e nient’altro. Portavano vestiti sobri mentre quelli maschili sgargiavano. Colori indescrivibilmente spenti fasciavano mogli e figlie dei borghesi. L’abito non era che una transazione fra la persona e la tenebra circostante. Per rendere completo il fondo buio sul quale la pelle del viso doveva spiccare luminosamente era stata introdotta l’usanza di annerire i denti.[…]

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Utamaro Kitagawa – Women gathering for tooth blackening ceremony (ca.1803)

Lo ohaguro (お歯黒) è una pratica antica. Sono state ritrovate haniwa e denti del periodo Kofun che mostrano l’annerimento. Anche nel Genji Monogatari se ne parla. Nel periodo Edo solo gli uomini della famiglia imperiale e gli aristocratici si annerivano i denti. A causa dell’odore e della fatica del processo così come da una sensazione tra le giovani donne che stavano invecchiando, l’ohaguro era praticato solo dalle donne sposate o dalle nubili maggiori di 18 anni e dalle geisha. La pratica di annerire quando una sposa entra per la prima volta nella casa del marito o, per le prostitute prima del primo cliente. Alla fine l’usanza cominciò a passare di moda anche a seguito di un’apparizione dell’ìimperatrice con i denti bianchi avvenuta nel 1873.

Di mia madre ricordo il volto, le mani, i piedi ma niente del resto del corpo. Pensando a lei mi torna in mente la statua di kannon nel tempio di chugu-ji. Le mammelle hanno lo spessore di una cartilagine su una tavoletta piallata, rigidi e perpendicolari ventre e schiena non presentano tondezza alcuna; solo i fianchi sono segnati da un leggero incurvarsi. Di una magrezza tremenda senza proporzione con il viso e con gli arti quel torso femminile senza ispessimenti ha più forma di bastone che di corpo umano. Così doveva essere, nuda e in antico, la donna giapponese.

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statua lignea di Miroku Bosatsu al tempio Chugu-ji risale al periodo Asuka 538 to 710 (o 592-645).

Simili stecchite beltà esistono ancora non solo fra le geishe ma anche nelle famiglie fedeli alla tradizione. Quando ne vedo una subito penso alle marionette bunraku. Come i bastoncini delle marionette, imbottiti d’ovatta e imprigionati in una sfoglia di tessuti anche il corpo di queste donne è soltanto una gruccia a cui appendere abiti.

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Fonte: http://www.jnto.go.jp/eng/indepth/cultural/experience/z.html
Il burattino femminile solitamente non ha piedi e la camminata è suggerita dai sinuosi movimenti dell’orlo del costume.

Tolti gli abiti un supporto corporeo così ridicolmente sparuto può scoraggiare. Esso doveva tuttavia corrispondere alle esigenze dei nostri avi. Donne che abitavano nell’ombra non avevano bisogno di possedere un corpo: bastava loro un viso bianco che si abbeverasse a una scarsa luce. Chi ama la bellezza sportiva delle donne di oggi difficilmente potrà capire la malia che si sprigionava dalle fantomatiche donne recluse del vecchio Giappone. Chiamerà la loro una beltà ingannevole e fallace. Tuttavia (come certamente devo già aver detto) piacciono a noi Orientali i sortilegi che traggono il loro potere solo dai giochi d’ombra.

Raccogliete sterpi e

legateli.

Una capanna

Scioglieteli

Lo sterpaio di prima.

Queste parole esprimono bene il nostro modo di pensare: non nella cosa in sé, ma nei gradi d’ombra e nei prodotti del chiaroscuro risiede la beltà.

La perla fosforescente nei luoghi bui smarrisce alla luce del sole gran parte del suo fascino. Non v’è bellezza in lei fuorché quella creata dai contrasti di luce e ombra. Come i legni laccati di nero con disegni di polvere d’oro, o gli oggetti intarsiati in madreperla, la donna era per i nostri avi un ornamento dell’oscurità. Per questo la affogavano nell’ombra, la avvolgevano in lunghi kimono lasciavano che solo piccoli lembi di carne viva pendessero o emergessero da svasature o imboccature profonde.

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I kimono dell’era Heian sono i più ampi, stratificati e complessi. Soprattutto quelli femminili sembrano concepiti per stare seduti e la figura risulta come affondata nella stoffa. Di sicuro le dame di corte non si avventuravano quasi mai fuori dalle stanze.
In seguito invece il kimono divenne famoso proprio per la forma rettangolare e priva di sinuosità che dava al torso e ai fianchi.

E’ possibile che svelato il corpo piatto e disarmonico di una giapponese sarebbe apparso privo di grazia vicino a quello di un’Occidentale; ma ciò che non si vede presto si oblia, e quasi non ha esistenza. Chi vuole toccare con mano la beltà è condannato a dissolverla e a rovinarla. Non diversamente annichilirebbe il toko no ma di una stanza da tè chi per vederlo meglio lo illuminasse con una lampadina elettrica.

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tokonoma (床の間) non illuminato. Il tokonoma è una nicchia all’interno di una stanza in stile giapponese. All’interno della nicchia trovano posto solitamente una pergamena emakimono, e altri ornamenti come ikebana o bonsai. E’ uno spazio sacro, dedicato alla meditazione e riservato ai membri della casa.

14

Per prima cosa i nostri antichi ricavarono, nello spazio illuminato dalla luce solare, una chiusa nicchia d’ombra; posero poi al centro dell’ombra, l’essere più chiaro che conoscevano: la donna. Perché biasimarli? La chiarezza della pelle era, per loro, il sigillo della beltà femminile. Solo l’ombra poteva proteggerla e darle risalto.

Vari di colore, i capelli degli Occidentali spesso tendono al chiaro; con varia intensità, i nostri capelli sono ineluttabilmente neri. Possiamo considerare anche questo un invito che la natura rivolge, a noi in particolare, perché meditiamo su quelle leggi dell’ombra di cui i nostri avi furono fedeli, e forse inconsapevoli, osservanti.Non è forse attraverso i giochi, e i contrasti dell’ombra, che essi trasformarono i visi giallognoli delle loro donne in miracoli di suprema bianchezza? Un tempo le donne erano obbligate non solo ad annerirsi i denti (come già ho detto) ma anche a radere i sopraccigli; altro artificio che serviva ad accrescere il lucore e l’albedine dei visi.

Niente tuttavia, nel laboratorio della beltà femminile, mi incanta quanto il colore bluastro iridescente del rossetto all’antica. Nessuno ormai lo usa più – neppure le geisha di Gion, il quartiere di Kyōto più fedele alla tradizione. Del resto, il fascino esercitato da quella strana gradazione di rossetto, interamente scompare, se non è accompagnato non è accompagnato dal fluttuare nel buio, di un vacillante lume di candela. Deliberatamente, gli antichi giapponesi dipinsero le loro donne di quel colore bluastro, quasi volessero soffocare le buie vampe del sangue con incrostazioni di madreperla. Cosa può esserci di più bianco del volto di una fanciulla, i cui denti lucidi di nera lacca, lampeggino a ogni raro sorriso fra labbra blu scure, come fuochi fatui. Almeno nella mia immaginazione quel viso vince in bianchezza la più bianca fra le donne occidentali. In costoro la bianchezza è diafana, ovvia, banale; nella donna giapponese è misteriosa e disumana quietamente. Mi si potrebbe obiettare che un simile colorito non esiste nella realtà; che è un’illusione effimera, legata ai giochi della luce e dell’ombra. Che importa? A noi piace così. Non c’è dato di sperare in niente di più o di diverso.

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Gion Seitoku (1781 – 1829): Beauty.
rotolo decorativo
inchiostro, colore, gofun e mica su carta
Brooklyn Museum.

Vorrei qui accennare al colore dell’ombra che avvolgeva la bianchezza fantomatica delle antiche donne giapponesi. Qualche anno fa, in una casa di geisha del quartiere Shimabara di Kyōto, dove avevo accompagnato alcuni amici venuti da Tōkyō, vidi un buio di una densità senza pari. Ci trovavamo in un grande locale chiamato “Sala del pino”, che fu poi distrutto da un incendio. Là capii quanta differenza vi sia fra le tenebre di un vano spazioso e quelle di una stanza di dimensioni ridotte. Al mio ingresso mi aveva accolto una cameriera in età avanzata, dai sopraccigli rasati, dai denti tinti di nero; ginocchioni davanti a un alto paravento, stava sistemando un candeliere. Sul paravento che delimitava una superficie illuminata di circa due tatami incombeva dall’altissimo soffitto una massa d’oscurità spessa e uniforme, sulla quale l’incerto lume della candela rimbalzava come su un muro impenetrabile d’ombra. Avete mai visto, voi che mi leggete, una vera oscurità illuminata da una luce di candela?

[…]

Eppure le visibili tenebre dei grandi interni erano più conturbanti delle stesse tenebre esteriori; chi vi sostava, credeva di percepire minuscoli esseri fluttuare nell’aria; lemuri e spettri le prediligevano. Del resto non erano spettri anche le donne che vivevano là dietro tende pesanti, oltre porte scorrevoli, difese da più e più strati di paraventi? Le tenebre le abbracciavano con mille tentacoli d’ombra, si insinuavano nella scollatura e nelle imboccature delle maniche, passavano sotto l’orlo dei kimono, colmavano ogni vuoto e ogni interstizio. O forse non era così; forse erano le stesse donne come il ragno mostruoso della leggenda a secernere dalle dentature annerite le tenebre in cui vivevano.

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Jorōgumo (絡新?) è una donna ragno. illustrazione presente nel secondo volume del Gazu Hyakki Yagyō (La parata notturna illustrata dei Cento demoni – 1776) di Toriyama Sekien.
http://it.wikipedia.org/wiki/Gazu_Hyakki_Yagy%C5%8D#Lista_di_creature

"Takiyasha the Witch and the Skeleton Spectre" di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861). La stampa rappresenta la principessa Takiyasha evocare un demone scheletro per spaventare Mitsukuni. Alla fine Tanizaki sembra suggerire che la donna può essere sia la luce che illumina e riscalda la casa, sia la strega che tesse nell'ombra i suoi sortilegi.

“Takiyasha the Witch and the Skeleton Spectre”
di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861). La stampa rappresenta la principessa Takiyasha evocare un demone scheletro per spaventare Mitsukuni.
Tanizaki sembra suggerire che la donna può essere sia la luce che illumina e riscalda la casa, sia la figlia dell’ombra stessa che anima e comanda gli spiriti che in essa si annidano.

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Corde Shimenawa

La Shimenawa (注連縄)è una corda rituale ricavata dalla fibra della pianta di riso. Insieme alle strisce di carta a zig zag dette Gohei (御幣) è una delle decorazioni tipiche dei templi shintoisti.

In linea generale le shimekazari (l’insieme delle decorazioni con le corde) indicano la presenza di una divinità (the god is in).

Infatti si trovano all’ingresso dei templi

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oppure cingono alberi o rocce sacre

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il significato però è piuttosto sfumato e le corde vengono utilizzate anche per indicare anche i campioni di sumo (gli yokozuna) o… altri campioni come i tosa-inu.Immagine

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Questa ampiezza di significato può essere fatta risalire a due miti che riguardano la shimenawa.

Il primo mito racconta che quando Amaterasu uscì dalla grotta attratta dalla danza del dio Uzume un dio pose una corda sull’entrata della grotta in modo che la dea non potesse tornarci. Questo mito è in parte contrastante con l’uso effettivo della shimenawa (che invece vuole indicare e invitare la presenza della divinità).

C’è però un altra storia, minore, della zona di Tottori che racconta di come Susanoo, per ricambiare una gentilezza, insegnò ad un uomo come intrecciare la corda di riso e a tenderla lungo una strada per purificarla e tenerne lontano la malignità.

Ecco dunque che sacro e puro tendono a coincidere. Quindi i campioni cinti da shimenawa più che sedi di una divinità indicano la purezza della virtù e del carattere quasi divini che incarnano.

vedere anche questo interessantissimo articolo

qui

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A Milano un ciclo su simboli e miti di Oriente e Occidente

                                 
Diffondo questo comunicato. Le lezioni sono a entrata libera e la tematica mantiene vivo il dialogo. O i dialoghi. Tra mandala tibetani, draghi cinesi e giardini giapponesi gli interessati non dovrebbero mancare

   Comunicato stampa

14 gennaio  –  25 marzo 2014

«Miti e simboli
fra Oriente e Occidente»

Ciclo di conferenze a ingresso libero organizzato dall’Istituto studi umanistici F. Petrarca (www.lrst.net), in collaborazione con il Centro di cultura Italia-Asia (www.italia-asia.it)

Gli incontri si svolgerannopresso l’Aula Magnadell’Università
del Card. Colombo (in Piazza S. Marco 2 a Milano, alle ore 18.00)

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Recensione Libro: Metamorfosi. Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese

L’immagine di copertina è tratta dal film Organ di Fujiwara Kei

Autrice: Maria Roberta Novielli 

Editore: Epika Edizioni

ISBN: 9788896829066

Anno: 2010

168pp

Prezzo Cartaceo: 27,50 €

Prezzo e-book: 9,99 €

Il libro ha una prefazione di Tsukamoto Shin’ya regista e attore famoso per la trilogia Tetsuo, per Nightmare Detective o il più recente Kotoko.

La riflessione del saggio prende le mosse dall’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995 ad opera di una setta religiosa Aum Shinrikyo. Questo evento viene preso come simbolico punto zero di una corrente cinematografica contemporanea. Nella riflessione sociale scaturita in giappone dopo l’attentato fecero scalpore l’elevata partecipazione femminile alla setta e il gran numero di giovani universitari e di buona cultura.

Secondo questi giovani, in un mondo regolato dal potere dell’economia, all’individuo non resterebbe che il corpo; avrebbero quindi cercato di definire per sé una nuova dimensione, potenziando il proprio corpo attraverso la scienza e la tecnologia, per trascendere i limiti naturali e sociali e raggiungere una “trasformazione del potenziale fisico umano con il potere delle idee, delle credenze e della meditazione” [Castells] Un’idea che negli stessi anni informava gran parte dell’arte, della letteratura, del fumetto e del cinema giapponesi.

In quegli anni inoltre il Giappone si rivolge nuovamente al resto dell’Asia per la distribuzione e produzione di entertainment che darà vita a una più ampia “cultura asiatica”:

Una cultura che tuttavia viene ancora percepita dall’audience occidentale come un affascinante pot-purri di elementi esotici, a cui vengono abbinate delle etichette di massima per distinguerne sommariamente le origini: “J”, la sigla per Giappone, anticipa quindi ogni ambito culturale nipponico (J-pop, J-horror, J-drama, tra i tanti), così come, per esempio, la “K” connota i prodotti coreani.

L’intento del libro:

Il criterio di selezione deii contenuti e delle opere di questo libro è nato in corso d’opera: si riferisce alla cinematografia a cui ha accesso il pubblico occidentale, in base a una cernita tra i titoli discussi in differenti siti internet e blog di varia natura. Quasi tutti i film qui trattati sono dunque visionabili […]Tuttavia, dalle informazioni colte attraverso interventi appassionati degli utenti amanti di questo cinema (nonchè dei suoi detrattori), a volte si evidenzia la mancanza di elementi che permettano di connettere coerentemente questi film tra loro e alla cultura del loro paese d’origine, una lacuna che questo libro tenta di colmare.

Il libro è poi diviso in quattro macro capitoli:

1 -Il sovrannaturale

Il corpo vilato e contaminato, il varco socchiuso tra i mondi dei vivi e dei morti, le presenze fantasmatiche e orrorifiche, l’icona di donna-demone, tutti questi sono elementi che risalgono agli albori del mondo, secondo la cosmologia nipponica.

2 -Psycho:

E’ il territorio delle devianze e delle allegorie, delle paure inconsce e delle attrazioni feticistiche, che richiama spesso un pubblico diverso da quello che decreta il successo dei film sul sovrannaturale

3 -Materia, Scienza e Tecnologia

L’idea fondamentale che ogni individuo sia solo un elemento del meccanismo generale e che la sua partecipazione al disegno complessivo sia, allo stesso tempo, minima e di grande rilevanza.

4 -La violenza nelle logiche di mercato: cinema action ed erotico

Mentre il palinsesto televisivo ha continuato per lo più a indirizzarsi a donne e bambini, contemplando in particolare drammi di ambiente contemporaneo o in costume, cartoni animati, commedie e film romantici, il fenomeno delle catene di negozi di video-noleggio (tra le principali, la Tsutaya), esploso in Giappone verso la metà degli anni ottanta, si era dall’inizio diretto a un target prevalentemente maschile, proponendo prodotti legati soprattutto all’action, all’erotismo e all’animazione erotico-violenta.

Ho trovato il volume estremamente interessante, accessibile e compatto. L’autrice riesce a immergere i film in un tessuto sociale, culturale e cinematografico. Attraverso riferimenti che vanno dalla mitologia giapponese agli episodi più rilevanti di cronaca nera l’autrice riesce ad agganciare i simboli cinematografici a una materia più concreta. Ad esempio: Sadako di the Ring manda riferimenti sia agli yurei che al mito di Izanami e Izanagi. Oppure l’influenza che i delitti di Miyazaki Tsutomu hanno avuto sul termine “otaku” e sulle ansie collettive. O ancora una descrizione del panorama criminale dagli yakuza, ai motociclisti bosozoku.

Io non sono un’esperta nè di cinema, nè di horror però ho trovato questo libro immensamente interessante, divertente e ricco. Si va da The Ring a Godzilla, da Evangelion a Love & Pop, dai pazzi film di Miike a quelli ancora più pazzi di Satoshi Kon, dalla ferocia di Tetsuo ai disturbi di Cold Fish. Alla fine quello che resta è un’idea più precisa dei riferimenti culturali e un’immagine per sommi capi dei registi emergenti e delle nuove tendenze filmiche.

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Mostra in Triennale: Made in Japan, l’estetica del fare

A MIlano in correlazione con la XIX  edizione dello Sguardi Altrove Film Festival si svolgerrà la mostra Made in Japan: l’estetica del fare

Alla Triennale di Milano la mostra "Made in Japan"


Uno sguardo oltre il cinema per immergersi nel mondo del sol levante

Ancora pochi giorni per l’inaugurazione di Sguardi Altrove Film Festival diretto da Patrizia Rappazzo, giunto ormai alla sua XIX edizione. Oltre 70 titoli italiani e internazionali a cui si aggiunge la sezione espositiva Tasselli d’arte- Oltre il cinema, mostra collettiva dedicata, quest’anno, alla cultura artistica, estetica e sociale del Giappone, uno dei paesi protagonisti della scena internazionale odierna, rimbalzato alla cronaca anche per il recente disastro ambientale.
Made in Japan. L’estetica del fare apre e inaugura la manifestazione il 2 marzo 2012 presso La Triennale di Milano, e amplia l’omaggio dedicato alla cultura nipponica con la retrospettiva dedicata a Naomi Kawase.
Uno dei tasselli di Made in Japan. L’estetica del fare è costituito da Charity Box- l’esposizione di oltre 50 designer italiani e stranieri pensato come progetto di emergenza raccolta fondi per il Giappone. Il progetto è stato ideato dalla designer giapponese Kazuyo Komoda e prevede, per la serata di inaugurazione e nel corso della giornata dell’11 marzo (anniversario di Fukushima), la possibilità di offrire delle donazioni volontarie a scopo benefico.

Made in Japan. L’estetica del fare si pone come portavoce non solo delle antiche tradizioni nipponiche, quali la vestizione del Kimono e la cerimonia del tè, ma anche e soprattutto come portavoce degli artisti di diverse generazioni che, all’interno del panorama contemporaneo, uniscono il vecchio al nuovo, il sentimento di sconforto per il disastro -pensiamo alla difficile situazione ambientale in cui versa ancora oggi il Giappone- a quello della speranza.
In un’intricata rete di significati, vediamo quindi i linguaggi della fotografia, del cinema, del video, della danza e dell’arte uniti in un unico spazio e in un’unica direzione.
La panoramica sull’arte giapponese si completa con Itamy, la coreografia dell’artista Sisina Augusta che porterà in scena, nella serata di inaugurazione, il ballerino Lorenzo Pagani e la pittrice Takane Ezoe.
Tra i principali nomi presenti alla mostra ricordiamo inoltre: Yayoi Kusama, Nobuyoshi Araki, Kaori Shiina, Yoshie Nishikawa, Naoto Fukasawa, Serio Calatroni ed Eliana Lorena.

La mostra si protrarrà fino a domenica 1 aprile.
Un lungo e intenso mese dedicato all’arte e alla cultura in uno dei più prestigiosi spazi di Milano.
Inaugurazione 2 marzo h. 19:00.
Ingresso libero aperto al pubblico.

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