Brano tratto dal libro “Il Drago e la Saetta” di Marco Pellitteri edizione Tunuè (estrapolato deliberatamente e senza note)
Dai primi manga e poi anime di Osamu Tezuka è possibile riscontrare i più importanti elementi distintivi del fumetto del cartoon commerciale giapponesi. Il primo è figurativo e riguarda il modo in cui gli autori nipponici stilizzano gli occhi dei personaggi. L’uso degli occhioni deriva dai primi manga disegnati con un pennello unico e in cui gli occhi venivano graficizzati in modo da evitare che l’inchiostro per disegnare si espandesse a contatto con le altre linee tracciate per raffigurare le palpebre e le ciglia; e dal citato Tezuka, amante dell’animazione statunitense, come già rilevato. Egli, fin dai suoi primi fumetti – ripensiamo a Shintakarajima – introdusse gli occhi grandi rendendosi conto che l’espediente statunitense, specie di scuola disneyana,
era funzionale per rendere gli stati d’animo dei personaggi. Se si pensa al soprannome con cui Tezuka è chiamato in patria, dio del fumetto, ci si può rendere conto del perchè la sua graficizzazione degli occhi sia stata seguita da così tanti fumettisti e animatori del Sol Levante e anche di altri paesi asiatici come la Cina con Hong Kong, la Corea del Sud, Singapore, Taiwan.

Famosa tavola “cinematografica” di Shin takarajima – La nuova isola del tesoro – di Osamu Tezuka 1947
V’è però anche un’origine storica anteriore all’innovazione di Tezuka. Schodt rileva innanzitutto che prima del periodo Meiji gli artisti giapponesi ritraevano i connazionali con occhi stretti rispetto al canone occidentale – e bocche di misura variabile, e gli europei erano disegnati in modo “mostruoso”. Ma dalla metà del XIX secolo gli stili cambiarono progressivamente:
l’ideale giapponese comincia a spostarsi verso il modello del classico greco, cosa che gli artisti giapponesi chiamano fisico delle otto teste: l’altezza dell’uomo doveva essere uguale a otto volte la dimensione della testa. Anche i visi cominciarono a cambiare. Nelle popolari riviste femminile del periodo precedente alle guerre le illustrazione, ad esempio, di Jun’ichi Nakahara mostravano eroine con grandi occhi sognanti in uno stile importato dall’occidente. [Schodt 1983; Manga! Manga!: The World of Japanese Comics]
E’ ben più probabile, in realtà, che soltanto in parte gli occhi grandi fossero una derivazione delle fisionomia occidentali e che prendessero invece spunto da tendenze nate in loco. Lo spiega il nipponista Cristian Posocco, il quale chiama anch’egli in causa l’artista Jun’ichi Nakahara in una sintetica ricostruzione del contesto storico-artistico dell’epoca:
già prima che Tezuka “reinventasse” gli occhi grandi e introducesse il genere shōjo, questa convenzione grafica era presente in una forma d’arte prettamente nipponica come l’illustrazione jojōga (抒情画 immagini liriche), di cui sono particolarmente rappresentative le opere di Nakahara Jun’ichi (1913 – 1983). Caratteristica peculiare dei lavori di Nakahara, oltre alla dimensione irrealmente esagerata degli occhi delle fanciulle da lui dipinte, era la presenza all’interno delle iridi di riflessi molto accentuati atti a indicare un qualche moto o turbamento dell’animo. [Posocco 2005; Mangart]
[a questo link potete trovare interessanti informazioni sulle riviste femminili in giappone]
C’è chi fa invece risalire gli occhi grandi alla guerra russo-giapponese del 1904-1905, durante la quale la propaganda nipponica rappresentava i propri soldati in modo idealizzato rispetto alle controparti russe [Zaccagnino – Contrari, 2007] Ciò è vero, ma Zaccagnino e Contrari affermano che questa visualizzazione generosa e idealizzante sarebbe stata volta a rendere più “belli” ed “europei” i giapponesi, intendendo come sinonimi i due aggettivi e posizionandosi all’interno di un orientalismo naif, secondo cui l’abbellimento in questo caso sarebbe stato teso all’occidentalizzazione. In realtà il meccanismo dell’abbellimento dei propri connazionali e della penalizzazione estetica dei nemici è un procedimento comunicativo comune a tutte le strategie di propaganda grafica.
V’è un ulteriore, e credo più sensata, spiegazione. Quando in un manga o in un anime è raffigurato un giapponese di fronte a un occidentale quest’ultimo è disegnato evidenziandone altri tratti somatici più che gli occhi: l’altezza, la carnagione, il naso pronunciato. Nei giornali giapponesi furono pubblicate, fin dai primi anni della seconda metà del XIX secolo, numerose illustrazioni, realistiche o satiriche, nelle quali gli occidentali erano raffigurati quasi come dei mostri rispetto agli aggraziati giapponesi: teste grandi, arti oblunghi, nasi enormi, come in giornali quale il citato The Japan Punch [Schodt 1983] o come la celebre copertina di Kinkichirō Honda apparsa nel 1887 sul settimanale satirico Marumaru Chinbun.
L’abitudine appercettiva dei giapponesi alle fisionomie europee, e dunque delle consuetudini rappresentative nei confronti degli occidentali, sono diverse da quelle che un non asiatico può attendersi. E’ “semplicemente” una differenza culturale [Eco 1997; Kure 1999]. Un’altra questione ancora è invece il fatto che un occidentale, armato anche di una certa malizia, ritenga che gli occhi grandi dei personaggi dei manga indichino un europoide (perchè, appunto, “bianco” e privo di “occhi a mandorla”) o tradiscano un non meglio precisato senso di inferiorità etnica dei giapponesi verso il ceppo caucasico: questa è una fantasia derivata ancora da un ingenuo orientalismo eurocentrico. La tendenza è sempre stata evidente per lo più negli shōjo manga e ancor prima nelle storie illustrate pubblicate sulle riviste per ragazze, dagli anni Venti-Trenta (Nakahara docet); come spiega ancora Kure, nel periodo del massimo fulgore in Giappone dei costumi e della moda occidentali, negli anni Trenta e dopo la Seconda guerra mondiale, un ideale alternativo di bellezza femminile era fra le lettrici quello mitteleuropeo: giovani magre, slanciate, abbigliate in modo quasi fiabesco, secondo i crismi dell’estetica europea riguardante la donna. Fra i disegnatori più rappresentativi di questa tendenza vanno ricordati Makoto Takahashi, autore di shōjo manga come Petit La (edito sulla rivista mensile Shōjo nel 1961) e Yoshiko Nishitani, il cui testimone è stato poi raccolto da autrici come Riyoko Ikeda (Versailles no Bara 1972) o, più di recente, Moto Hagio (zankoku na kami ga shihaisuru 1993).
[a questo link trovate molte informazioni sull’evoluzione del genere shojo e tanto altro]
Non è nemmeno possibile ipotizzare che i manga e gli anime siano così pieni di personaggi dagli occhi grandi perchè gli autori e produttori giapponesi avrebbero sempre avuto in testa la proposizione dei prodotti alle platee internazionali, visto che il mercato degli anime è per lo più quello interno. E’ stato già segnalato, certo, che fin dagli anni Sessanta varie serie di anime furono esportate sul mercato statunitense. La storia degli anime prodotti per il mercato interno e anche per per quelli occidentali risale però agli anni Settanta: i primi anime televisivi di ambientazione europea, ad esempio, nacquero da coproduzioni, partire dalla citata Alps no shōjo Heidi (1974) e da Chiisana Viking Vicke (1974, in Italia Vickie il vichingo) della giapponese Zuiyo con le tedesche BetaFilm e Taurus Film. Inutile sottolineare, tuttavia, che la convenzione degli occhi grandi era già diffusa in patria ben prima che il fumetto e il cinema d’animazione giapponese venissero promossi all’estero.

Vicky il vichingo con i capelli lunghi e la voce da ragazza (lo adoravo) – una coproduzione nippo-tedesca
L’equivoco in cui cadono osservatori che non siano specialisti di manga e anime riguarda insomma un’incompleta cognizione delle componenti storico-estetiche che hanno portato gli autori nipponici a raffigurare gli eroi giapponesi in modo non necessariamente naturalistico – ovvero, rifacendosi in termini graficamente referenziali ai tratti somatici che si registrano nella realtà – ma secondo codici nati da stratificazioni storiche, tecniche, culturali tout ccourt. Non è che i personaggi dei manga non assomiglino ai giapponesi; è che la simbolizzazione visiva adottata per tradizione nei fumetti nipponici non ha un’evidente radice verista perché si basa invece su una consuetudine grafica partita con scopi diversi rispetto alla trasposizione pantografica di tratti somatici quali occhi, zigomi, capelli. La casistica conta tre possibilità:
1. Quando, in un anime o in un manga ambientato in Giappone, osserviamo un personaggio medio, cioè che abbia le sembianze di un tipico eroe o coprimario da anime/manga, siamo di fronte a una figura che è sottinteso che sia giapponese: creata da giapponesi, collocata in un contesto nipponico, in una storia destinata a spettatori locali. V’è insomma una corrispondenza simbolica 1:1 tra la fisicità reale dei giapponesi e la fisiognomica media dei personaggi degli anime o dei manga con l’ovale del volto dal mento spesso appuntito, gli occhi grandi, il naso appena accennato. Per quanto i giapponesi veri non somiglino granchè a quelli dei manga e degli anime, la codificazione standard formulata nel dopoguerra da osamu Tezuka è questa, e ne va preso atto sic et simpliciter.

One Piece – per i fighter invece è il fisico ad avere le maggiori trasformazioni di forma, dimensione, natura, etc…
2. Quando ci si trova di fronte a un anime o manga ambientato in occidente e in cui tutti i personaggi siano occidentali, la codifica grafica rimane la stessa – i personaggi sono disegnati come nel tipo 1. sulla base di un calco proiettivo: benchè fra autore e pubblico viga il tacito patto per il quale gli eroi sono euroamericani e agiscono in un contesto occidentale, la loro fisicità è resa con i tratti che i personaggi assumono normalmente nei manga e negli anime, come se fossero giapponesi, anche se nell’economia narrativa, naturalmente, giapponesi non sono. In questo modo vengono fatti salvi da una parte gli stilemi della tradizione del manga e dell’anime. e dall’altra possibilità di identificazione del lettore/spettatore giapponese nei personaggi della storia; senza contare che in tal modo è salvaguardata la riconoscibilità del prodotto a livello internazionale in quanto proveniente dal Giappone. Checchè ne dicano coloro i quali sostengono che gli anime siano confezionati facendo attenzione che si perda nello spettatore la percezione che il prodotto è del Sol Levante, di fatto la nipponicità degli anime il più delle volte non è solo perfettamente evidente, ma è spesso sottolineata proprio dall’insistenza su tali sistemi.
3. Quando sono presentati personaggi di nazionalità nipponica insieme ad altri, caucasici o di altre zone del continente asiatico, i giapponesi assumono i tratti canonici del personaggio manga/anime; gli occidentali vegono dotati di caratteristiche quali un colore variegato nell’acconciatura, un naso oblungo, occhi azzurri, una pelle rosea, un mento magari con una fossetta, lentiggini; e gli asiatici non giapponesi, a seconda della luce in cui si vuole siano posti possono apparire in modo dignitoso e distinto oppure – come nel fumetto anticoreano Kenkaryu di Sharin Yamano – in modo stereotipo.
Mia nota: spero si sia capito che occhi, capelli e rispettivi colori vengono usati per trasmettere il carattere e l’essenza del personaggio:
“Il Drago e la saetta” travalica la categoria del saggio per invadere parzialmente il territorio del manuale. L’impostazione di base dell’opera è una raccolta di saggi attorno al manga. I saggi sono in parte raccolti da lavori precedenti di Marco Pellitteri (libri, tesi, conferenze, etc) e in parte lavori originali.
Con un’ottica socio-antropologica vengono delimitati i confini storici e artistici del media senza tralasciare gli elementi inerenti la commercializzazione. L’analisi affronta le origini del fumetto e del manga, l’influenza delle arti giapponesi (kabuki, noh, etc) sul fumetto con precisazioni sulle peculiarità stilistiche e di genere. Vi sono approfondimenti dettagliati sulla diffusione del manga nel mondo e in italia in particolare arricchiti da gustosi aneddoti come la ragione dell’aggiunta di “atlas” al titolo italiano di Ufo robot (Goldrake/Grendzinger). Vi è molta attenzione ai significati veicolati o percepiti attraverso i manga e gli anime nel tempo e sull’immagine di sè che i giapponesi hanno prodotto all’estero (più o meno volontariamente) con precisi riferimenti alle tematiche dell’orientalismo e occitedentalismo.
Di fatto nel volume è possibile ritrovare una quantità immensa di dati e spunti. Devo dire che per quelli della mia generazione, segnata dall’ondata dei cartoni animati anni 70/80, questo libro potrebbe sortire un effetto catartico.